Divise militari made in China Truffa da milioni, in 12 a giudizio
ROMA - La scritta «made in China» nascosta sotto l’etichetta della comunità europea. Venuta via la targhetta della Ce si è scoperto dove sono state realizzate migliaia di divise destinate a carabinieri, Esercito, Guardia di finanza e Forestale. Il luogo di confezionamento e produzione delle uniformi era Shangai, dove si trova lo stabilimento dell’imprenditore Zuo Xingyan. Nella sua fabbrica sarebbe stato prodotto il tessuto per 130mila uniformi da combattimento per i soldati e per 150mila camice azzurre e bianche dei militari dell’Arma. La stessa azienda avrebbe confezionato 126 mila berretti. Un elenco che comprende anche gonne, giubbotti e camice, a maniche corte o invernali.
Il trucco
Il trucco dell’etichetta posticcia sarebbe stato escogitato dai vincitori dell’appalto - per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio - per occultare dove erano confezionati realmente gli abiti, che invece il bando dal valore di 12 milioni di euro obbligava a produrre esclusivamente in Europa. Dopo la scoperta del mancato rispetto del contratto, i pagamenti sono stati sospesi, anche se le divise sono state consegnate alle forze dell’ordine. A rischiare di finire sotto processo per associazione a delinquere finalizzata alla frode nelle pubbliche forniture Carmelo, Giovanni e Pietro Bucalo, i titolari della «Mediconf» originari di Palermo: nel 2007 avevano costituito l’«Ati» per vincere bando. «Il contratto è stato portato a termine, i prodotti hanno superato il collaudo, quindi siamo sicuri di ottenere il proscioglimento», sostiene Alfredo Galasso, difensore di Carmelo Bucalo. Insieme con gli imprenditori, il pm Corrado Fasanelli ha chiesto il rinvio a giudizio per le stesse accuse di Corrado e Sergio Scali, Sergio Cavallerio, Paolo Bortotti, Chiara Guido, Tiziana Parrino, Gianfranco Guaragni, Giacomo Greco, Mauro D’Epiro, ognuno con ruoli fondamentali nell’organizzazione dei Bucalo.
La scoperta nel 2009
La scoperta della produzione delle divise in Cina avviene nell’aprile del 2009 durante il collaudo. Si strappa un’etichetta con la scritta prodotta in «Ue» e appare quella «made in China». A quel punto scatta il sequestro dei prodotti. Le indagini, condotte inizialmente dai pm siciliani, accertano che le uniformi, dopo essere uscite prodotte a Shangai, arrivano in Italia dopo uno scalo al porto di Rotterdam. Secondo l’accusa, la «tappa» serviva proprio per sovrapporre le etichette «Ue» per aggirare i controlli. Il 17 marzo il gup deciderà sul rinvio a giudizio.
[fonte: corriere.it]