Dietro i riflettori delle sfilate e la lussuosa etichetta “Made in Italy”, si cela un’altra verità. Le aziende artigiane, la vera anima della filiera italiana, stanno cedendo sotto il peso dei costi, della competizione globale e di schemi produttivi sempre più opachi.
Il sostegno pubblico non basta
Il governo ha annunciato uno stanziamento di 250 milioni di euro per il settore moda: 100 milioni ai contratti di sviluppo, 15 milioni per l’ecosostenibilità. Tuttavia, secondo i dati ufficiali, solo 2,9 milioni sono stati effettivamente utilizzati come cassa integrazione nel comparto.Questo divario mette a nudo una verità: anche scegliendo la via degli incentivi, il sistema non riesce a sostenere chi lavora davvero “in Italia”.
Quando la filiera sparisce dietro la vetrina
La ricchezza del made in Italy non risiede nei marchi ma nella manifattura. Eppure, ricerche internazionali affermano che molte fabbriche italiane sono a rischio chiusura. Se un’etichetta glorifica la produzione nazionale ma la lavorazione finisce altrove, cosa resta del “vero” Made in Italy?
Le sfilate creano immagini, non posti di lavoro
Milano e altre città trasformano campi e palazzi in passerelle spettacolari — ma per le micro imprese che tessevano, cucivano e rifinivano, la realtà è diversa. Accedere a credito d’imposta e incentivi rimane un rebus, la manodopera specializzata invecchia e i giovani non trovano futuro nell’artigianato.
Che fare? La strada è chiara
Serve una trasformazione della filiera: trasparenza nei processi, tracciabilità reale delle fasi produttive, sostegno alle imprese che mantengono produzione 100% italiana. Solo così il marchio “Made in Italy” potrà tornare ad essere credibile, perché non basta apparire italiani: si deve essere italiani, dentro ogni cucitura.